‘IL PADRE D’ITALIA’ – 2017. LA RESPONSABILITA’ DELLA GENERATIVITA’

Adoro questo tipo di cinema. Quello che ti tira dentro le sue storie, che ti rapisce e non puoi fare a meno poi di rivederlo, il film… che devi ripensarci e che, mentre lo rivedi e ci ripensi, senti che ti fa male al cuore, ma è un male che porta alla comprensione ed alla riflessione.

Il padre d’Italia, film del 2017, regia di Fiabio Mollo, è anche un film sulla genitorialità. O forse sarebbe meglio dire, un film sulla generatività.

Paolo e Mia non riescono ad assumersi delle responsabilità pienamente adulte

 

Due giovani Paolo (Luca Marinelli, proprio l’incredibile cattivissimo in ‘Jeeg Robot’) e Mia (Isabella Ragonese), sono ormai adulti ma ancora alle prese con i loro sogni adolescenziali infranti. Sullo sfondo la nostra povera Italia, paese di inventori, artisti, viaggiatori e menti eccelse che però non riesce a risolvere problemi pratici di sopravvivenza, soprattutto per le generazioni dei 20, 30, 40 anni.

Paolo è portato per l’edilizia e aveva pure iniziato a studiare e magari avrebbe fatto l’architetto; ora lavora in un negozio di mobili fatti in serie; è omosessuale, ha avuto un compagno per otto anni, Mario, ma poi è finita perché Paolo non è riuscito a dare ‘qualcosa di più’, qualcosa di serio a Mario.

Mia ha proprio una bella voce e canta in un gruppo, ma non ha un lavoro vero, vive di espedienti, amando uomini di altre e scroccando di qua e di là senza essere capace di ringraziare chi l’aiuta.

Si incontrano o meglio lei gli si aggrappa in un night, una sera triste per lui perché Mario lo ha lasciato; lei porta in sè con superficialità una  gravidanza inoltrata e continua a fare una vita tutta sgangherata.

Paolo e Mia sono entrambi fragili e insicuri. Tenera la scena, sulla barella dell’ospedale dove sono arrivati pe run malore di lei, in cui Mia, proprio come una bambina,  tiene strette forte forte le due dita di Paolo, appena conosciuto, e l’infermiera deve far forza per staccarla da lui.

Mia è una donna volubile, in fuga da una famiglia tradizionalista, dai modi duri, incapace di darle il permesso di essere se stessa, di amarla fino in fondo, di appoggiarla nella sua voglia di libertà. Sua madre amara e sfiduciata, suo padre silenzioso e distaccato, non la capiscono. E con le loro parole, ma anche con quello che non dicono, riescono a far crollare quel poco di buona volontà di fare la madre che Mia era riuscita a mettere insieme, grazie anche a Paolo.

Paolo invece una famiglia non ce l’ha mai avuta. Di sua madre, che dovrebbe essere da qualche parte in Italia, ricorda solo un’immagine di spalle; ogni tanto la sogna che sta andando via. Solo una suora dell’orfanotrofio dove lui è cresciuto, che ‘sembra un carcere’, una donna ormai molto anziana, lo riconosce e si percepisce che lo ha amato anche se non sa, non può, ricordarsi esattamente il suo nome.

Ecco: entrambi pur essendo stati partoriti, non sono stati generati:  forse hanno dei genitori, o qualche surrogato ma non hanno un padre, una madre che li abbiano aiutati a essere se stessi. Quanta povertà educativa si intravede nello sfondo delle loro giovani vite. Tanta deprivazione emotiva.

Torniamo alla madre di Mia. Non ha, non riesce ad avere fiducia in lei. Arriva a dire a Paolo, che sta provando a non tirarsi indietro, di ‘lasciar perdere’ la figlia. E così facendo intuiamo che abbia mollato Mia tante altre volte prima, forse quando era ancora solo una ragazzina problematica (Mimma) ed il diritto di essere aiutata e supportata dalla famiglia ce lo aveva tutto.

Non puoi reggere se quelli che dovrebbero aiutarti a crescere ti si rivoltano contro, ti tolgono il terreno da sotto i piedi. Non puoi farcela.

Infatti Mia crolla. Si allontana anche dall’unica persona buona che stava per salvarla, Paolo. Il sogno di una vita possibile, di una famiglia, nuova, un po’ stramba… appena accennato da un vestito da sposa, un lavoro immaginato a ristrutturare case, vacanze al mare e il desiderio di far zittire tutto il vicinato perché lei un uomo, una sua vita, in fondo, ce l’ha avuta, si infrange.

Troppo soli questi due giovani, troppo dolenti le loro origini per permettere loro di prendersi cura di qualcun’altro.

Certo il film non nega a noi spettatori la speranza del lieto fine e un sorriso, lasciandoci con il sogno, forse il desiderio, che Paolo riuscirà ad accettare e a sopportare il compito generativo, affidato, scaricato (o forse regalato) da Mia. Lui decide di fare il padre della piccola Italia. E vogliamo sperare che proverà con tutte le forze a realizzare questo progetto.

Ma in fondo sappiamo che la vita reale è un’altra cosa. E noi spettatori lasciamo la nostra poltrona pensando a Mia, che è scappata, ancora una volta, scappata da se stessa oltre che da casa sua e da sua figlia, si è sottratta al suo futuro, abbandonandola, non ce l’ha fatta  a ricominciare grazie alla nuova vita miracolosa che è in lei.

E se pure ci conforta sapere che Italia è in mani sicure e buone, sentiremo uno strazio per Mia, per quella bambina, la piccola Mimma, che lei è stata.

E a questo punto non sarà difficile ripensare al fatto  che sia una madre, una famiglia assente e lontana, sia una presente ma inadeguata possono nuocere gravemente alla salute dei piccoli esseri umani, possono impedire alle giovani donne e uomini di superare la ‘paura di saper nuotare’.

 

E forse penseremmo anche che un paese come l’Italia che non incoraggia la generatività, la capacità di ciascun giovane di investire tutte le sue energie nel suo futuro, che si concretizzi in un progetto qualsiasi – oltre ovviamente che in un figlio vero e proprio – è un paese che non può andare avanti.

Povera Italia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Dott.ssa Nadia Sanza

Psicologo Clinico – Psicoterapeuta – EFT - Advanced Schema Therapist- EMDR

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