DSA: L’IMPORTANZA DI RICONOSCERLI PRECOCEMENTE, UN CASO

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento DSA, non precocemente riconosciuti,  possono rendere la vita di un bambino davvero difficile, non solo a  scuola ma anche a casa – in famiglia e con i coetanei. L’impatto sull’autostima e sulla costruzione di un senso di sé sano, efficiente, competente è troppo grande per non essere preso in considerazione nell’ambito della psicologia clinica, della psicologia evolutiva, della psicopedagogia, dell’educazione in funzione di un insegnamento che sia davvero efficace.

Occorre senz’altro che genitori, insegnanti, psicologi, pediatri, educatori vari possano affinare la capacità di individuare precocemente i DSA, prima che essi contribuiscano a creare un’identità fragile e atteggiamenti compensatori o strascichi che arriveranno fino all’età adulta, quando potrebbe poi essere difficile individuare l’origine di una sofferenza che, a quel punto, potrebbe apparire incomprensibile.

Temo che non molti colleghi si rendano conto della responsabilità di rintracciare accuratamente nell’infanzia questa fonte di disagio, talvolta addirittura di trauma nei pazienti che incontrano nel loro studio, ormai adulti.

Sicuramente la collega Antonella Amodio, con il suo ormai decennale lavoro di conferenze, ricerca, studio di casi clinici e pubblicazioni, può aiutarci a cogliere questa criticità; ella infatti afferma che: “La scuola è un fattore di rischio” psicologico.

A tal proposito voglio oggi riassumere la storia di una persona che un giorno mi chiese una consulenza psicologica: A.

A. era una donna adulta, sposata già da qualche anno, ultima figlia in una grande famiglia, che uno psichiatra di Potenza mi ha inviato, preoccupato dalla sua depressione severa. A. era diventata finalmente madre già da qualche mese, ma non stava affatto bene; tutti i suoi familiari, oltre al marito, erano preoccupati per lei. Nonostante il lieto evento, proprio in questi mesi A. diventava sempre più depressa e facile al pianto, si sente malinconica ed era come se non volesse più vivere. La psicofarmacoterapia non aveva dato grossi miglioramenti.

A. arriva al mio studio accompagnata dal marito e sembrava camminasse “sulle uova”. Era confusa, spaesata. Durante il nostro primo colloquio il marito ha parlato per lei, raccontando che passava molte ore a letto, che era sempre triste e che non riusciva a riprendersi, ovviamente non riusciva ad accudire il suo bambino.
Nei colloqui successivi A. veniva da sola, ma la prima volta si perse, non riuscendo a ritrovare il mio studio, manifestando poi con molta apprensione  di non avere un buon senso dell’orientamento.

Aprendosi gradualmente A. esprimeva di essere alquanto turbata in generale, nonostante l’appoggio del marito, soprattutto nell’accudire suo figlio e diceva di non fidarsi di se stessa, di non credere di non poter essere una buona madre. Sperimentava tanta paura “perché ci sono troppe cose da fare per il bambino”, soprattutto “troppe cose da decidere”. Il futuro, il suo futuro di madre, la terrorizzava, letteralmente. A. voleva stare sempre a letto, chiusa in se stessa, lontana da tutto e soprattutto da quel bambino che tanto la coinvolgeva e chiamava alla vita: un atteggiamento invalidante per lei, poiché le toglieva autonomia e gioia, ma pesante anche per il marito e per tutta la sua famiglia impegnata da mesi ad accudirla, farle compagnia e pensare al bambino che lei, talvolta, non voleva neanche vedere.

Ma il disagio che la nascita del figlio aveva scoperchiato in Angelina sembrava proprio non limitarsi alla maternità, infatti affermava: “Mi sento inferiore da sempre”, “mi tiro indietro… non voglio fare le cose”. A. manifestava quindi una forma estrema di evitamento e di ritiro dalla realtà. Emerse che da anni sperimentava, oltre alla depressione ed alla paura, emozioni di vuoto, di rabbia e di profonda angoscia. Indagando meglio in merito alla sua infanzia ed alla sua famiglia d’origine, evidenziai che A. si era sempre sentita amata ed accettata, anzi riconosceva anche di essere stata molto “coccolata” e protetta in famiglia; eppure le sue convinzioni profonde erano: “non vali abbastanza”, “non parli abbastanza”, “non sei capace di fare le cose che le tue sorelle fanno”, “sei diversa dagli altri”. Aveva preoccupazioni legate all’idea di non essere capace tanto quanto gli altri, o piuttosto all’idea che ci sia “qualcosa che non va” in lei stessa. Affermava sconfortata: “Non credo di valere come persona e se non valgo come posso sperare di avere successo come madre?”.

Quando con A. cominciammo a parlare del periodo in cui frequentava la scuola  raccontava con imbarazzo che a scuola andava male: “perché non volevo studiare”. Emerse che aveva sempre sperimentato tanta fatica a scuola: se c’era da leggere doveva farlo più di qualche volta per capire cosa ci fosse scritto, faceva tanti errori nella scrittura, mentre non aveva problemi se la maestra raccontava o spiegava oralmente. Ricordava che si sentiva in colpa quando non riusciva in qualcosa a scuola, eppure tutto le veniva presentato come facile ed automatico: si sentiva colpevole e difettosa, perché tanti altri bambini procedevano spediti. A proposito della scuola si vergognava, era profondamente dispiaciuta e umiliata; per questo e cominciò a convincersi di non essere portata per la scuola.

Delle sue sensazioni e convinzioni non poteva parlarne con nessuno, temendo di essere giudicata male. Ben presto cominciò a provare vergogna di stessa più in generale e a sentirsi profondamente inadeguata in tutto, non solo riguardo agli apprendimenti scolastici, proprio come persona. Soprattutto temeva di deludere suo fratello maggiore che, avendo studiato fino al diploma superiore, faceva da tutore a tutti gli altri fratelli più piccoli, essendo i loro genitori poco istruiti. Sapeva che lui non poteva essere contento di lei e questo la addolorava.

Inoltre, durante gli anni della scuola elementare A. non si integrava con gli altri ed era molto timida. Sperimentava una grande paura di non sapere le cose e si sentiva sempre in agitazione, non andava a scuola volentieri. La maestra prima e i professori dopo la ‘lasciavano stare’, in pratica continuavano ad andare avanti con e per coloro che riuscivano meglio di lei. In III elementare si arrivò a dire, ed è rimasto scritto in pagella, nel giudizio finale, che l’allieva presentava una “immaturità psichica’. Eppure a proposito della scuola scuola materna, ella rispondeva con chiarezza “Lì non ho avuto problemi”. Inoltre A. era chiaramente ed evidentemente normalmente intelligente.

No, pensai allora, non era una ‘semplice’ depressione post partum, c’era qualcosa che non tornava. Dopo qualche tempo che la consulenza procedeva senza riuscire ancora ad individuare nella sua storia le radici di un tale vissuto di inadeguatezza, mi decisi a parlarne con Antonella Amodio, esperta di DSA, poiché ipotizzai un disturbo specifico dell’apprendimento non individuato nell’infanzia. A:, cresciuta negli anni 70’ in un paesino vicino ad un piccolo capoluogo di provincia, poteva aver sofferto delle conseguenze di un DSA non riconosciuto. Ciò avrebbe spiegato la sua difficoltà a scuola, le sue paure ed il suo evitamento, la sua bassa autostima ed il senso di un ‘sé difettoso e incapace’ che la tormenta da anni e che le impediva di vivere appieno la sua vita e la sua maternità.

Dopo averle parlato ed averle giustificato la mia ipotesi, le proposi di consultare la dott.ssa Antonella Amodio. Quest’ultima, come già dicevo, affermava che un percorso scolastico altamente frustrante può essere un elemento traumatico nello sviluppo psicologico di un essere umano.

Mentre A. faceva i test per accertare la presenza di un DSA non riconosciuto in precedenza, emergeva nei colloqui la dolorosa consapevolezza di aver ingoiato tanta rabbia negli anni della scuola, tanto che A. non vide l’ora di smettere di studiare e di andare a lavorare. Ammetteva infatti che voleva dare soddisfazione al fratello, ai genitori, a se stessa ma nessuno mai le disse che, se non a scuola, poteva essere brava in altro.

Il fatto che, pur essendo timida e fragile dall’inizio, avesse sperimentato tanto disagio  a proposito della scuola confermava la mia ipotesi e mi aiutava a rendere consapevole A. della realtà dei fatti: non era sempre cresciuta sentendosi “piccola”, inadeguata, schiacciata dalle cose da fare e dagli altri, che immaginava potessero avere il sopravvento su di lei. Un preciso evento, o forse un evento traumatico più volte ricorso, nel giro di molti anni  della sua infanzia aveva impattato sul suo umore, sulle competenze sociali, sulla sua autostima ed ora sulle sue sicurezze in quanto madre. A causa dei ripetuti fallimenti scolastici, A. aveva imparato a credere “di non essere all’altezza”, avendo cominciato a frequentare la scuola elementare era iniziato il confronto con gli altri coetanei sui banchi di scuola a proposito di letto-scrittura e le maestre, ignare ed impreparate, avevano bollato questa sua difficoltà come ‘immaturità psichica’. In quel momento si era sentita di “serie B”. L’’immaturità psichica’, formulata dalle maestre, corrispondeva ad un drammatico vissuto psicologico: “non vado bene a scuola, sono solo una somara, dunque non ce la farò mai nella vita!”, spiegò la dott.ssa A. Amodio.
Dopo questa conferma della specialista, continuammo spedite in terapia il lavoro di disvelamento e di rilettura della sua storia. A. prendeva ogni volta sempre più consapevolezza delle sue emozioni e riformulava le sue difficoltà infantili, ricostruendo la sua immagine di sé, profondamente ferita dal suo precoce, quanto inspiegabile insuccesso scolastico.

A. comprese per esempio perché da ragazza anche il solo andare al supermercato era “una fatica” per lei, che voleva stare sempre in casa, al riparo di madre e sorelle. Riescì a capire perché oggi, ormai adulta, quando si ritrovava in mezzo ai bambini, prova forte timore e soggezione, come se fosse ancora bambina ella stessa. Si spiegava perché fosse così sorpresa di riuscire a prendere la patente e a portare la macchina: tutto ciò le era sempre sembrato strano, non coerente con l’idea distorta che si era, negli anni, costruita di se stessa.

Non aver riconosciuto il DSA nella sua infanzia, l’aveva portata a non sentirsi sicura, ad evitare e a non riuscire ad imparare o ad avere fiducia in se stessa, a non rischiare nel mettersi in gioco e a sperimentarsi, a non crescere e cambiare, anche grazie ai suoi errori.
E finalmente si accorse che di fronte alla rivoluzione che comporta per ogni donna il diventare madre, il suo senso di identità ferito non aveva retto e non le aveva permesso di fidarsi di se stessa e inventarsi il suo proprio modo di esserlo.

Affiorarono a quel punto in terapia i ricordi di alcuni momenti della sua vita in cui, fuori dalla scuola, lei era stata capace e competente, come quando ha lavorato per anni in un negozio, spostandosi in autonomia dal suo paese e riuscendo ad essere efficiente. Nel corso di pochi incontri A. smise di pensare solo ai suoi fallimenti ed alle sue incapacità e ricordò addirittura, reinterpretandola con nuovi occhi, di quella volta in cui, in pieno inverno, lei – di soli sei o sette anni – con le sue sorelle, andò a portare da mangiare al padre che era in campagna a sistemare il salame. Sulla strada le colse una bufera di neve. A. era riuscita a dare coraggio alle sue sorelle più grandi. Finalmente ora poteva smettere di stupirsi di se stessa, smettere di meravigliarsi di non aver avuto alcuna paura in una situazione molto difficile.
Dopo pochi altri incontri, il suo umore si stabilizzò, le sue energie ritrovarono vigore, incominciò a prendere iniziative autonome e a congedare le sorelle per le routine quotidiane con il figlio, ricominciò anche  a guidare e ad uscire anche da sola, come non riusciva più a fare da tempo.

La psicoterapia venne velocemente conclusa e nel follow up verificammo che il suo equilibrio psicologico e la sua serenità vengano mantenuti, nonostante la graduale riduzione dei farmaci.

Ora A. è una donna serena e sicura, pronta ad affrontare la sfide della maternità in autonomia, fiduciosa di potercela fare anche se, in una lunga prospettiva che prima la angosciava, pensa ancora al periodo in cui poi suo figlio dovrà, a sua volta, andare a scuola.

Per questa e tante altre storie di persone con DSA non riconosciuti, vi invito a consultare la rubrica ‘Banchi fuori misura’ sul sito di Antonella Amodio:

http://www.francescaantonellaamodio.it

http://www.francescaantonellaamodio.it/16-il-caso-di-angelina/

Dott.ssa Nadia Sanza

 

 

 

 

 

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Dott.ssa Nadia Sanza

Psicologo Clinico – Psicoterapeuta – EFT - Advanced Schema Therapist- EMDR

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